Camilla Battista da Varano, martire dell’epidemia di peste del Cinquecento
Chiedere aiuto a chi c’è già passato.
La storia di Camilla, martire dell’epidemia di peste del Cinquecento.
A colloquio con madre Chiara Laura Serboli e le altre clarisse di Camerino.
«Difenditi, fai qualcosa! Non restare lì a farti ammazzare, combatti!». Camilla da Varano, in uno dei suoi scritti autobiografici, racconta la reazione di se stessa bambina davanti allo scandalo inaccettabile della morte di Gesù: ribellione, rabbia, incredulità, desiderio di fare qualcosa di concreto subito, per difendere un Figlio di Dio così potente e così incomprensibilmente passivo.
Camilla esprime tutto il suo sconcerto in un italiano antico, cerimonioso ed elegantissimo (nasce nel 1458, figlia del principe Giulio Cesare da Varano) che abbiamo qui tradotto con frasi immediatamente comprensibili per il lettore, sacrificando lo stile alla praticità. Educata nella raffinata corte dei signori di Camerino, Camilla cerca di stare il più possibile alla larga da sacerdoti e religiosi; le persone consacrate la irritano e le fanno perdere il buonumore, ammette con candida sincerità.
Ma il mistero della Croce non cessa di interrogarla; e il fastidio che prova guardando preti e suore nasce in realtà proprio dal desiderio (rimosso, censurato, combattuto in ogni modo) della vita claustrale. Il 14 novembre 1481 cede al pressante invito del suo “sposo divino” ed entra nel monastero delle Sorelle povere di santa Chiara a Urbino, prendendo il nome di suor Battista. Pochi anni dopo, con otto consorelle, lascerà Urbino per il monastero di Camerino, dove vivrà (dopo un periodo di esilio, causato dalle faide scatenate contro la sua famiglia dal duca Valentino, Cesare Borgia) per tutto il resto della sua vita terrena, fino al 31 maggio 1524. Le circostanze della sua morte fanno sì che santa Camilla Battista (canonizzata dieci anni fa, nell’ottobre del 2010) venga ricordata in modo particolare in questo periodo così duro e difficile, così segnato dal mistero della malattia e della morte. Ma facciamoci spiegare il motivo di questo revival camilliano direttamente dalle consorelle che, cinque secoli dopo, vivono nel suo stesso monastero, madre Chiara Laura Serboli e le altre clarisse di Camerino.
Perché chiedere aiuto in particolare a santa Camilla Battista da Varano, in tempo di pandemia?
Storicamente nelle epidemie si invocavano alcuni santi “speciali”: santa Rita, san Rocco, sant’Antonio abate, san Cristoforo e san Sebastiano, le cui vicende in qualche modo sono legate a situazioni di malattia o guarigioni miracolose. Al di là del santo a cui ci si rivolge, queste invocazioni sottolineano un dato comune: la fiducia nella forza della preghiera e la consapevolezza che i santi sono nostri amici. Nella nostra preghiera di intercessione ci siamo rivolte a santa Camilla Battista Varano, il cui corpo è custodito presso il nostro monastero, perché la sentiamo nostra amica “speciale” ed è normale che nel momento del bisogno si chieda aiuto agli amici. Lo facciamo anche perché santa Camilla Battista non solo ha vissuto una realtà simile a quella che noi ora stiamo attraversando, ma ne è anche stata vittima, morendo di peste il 31 maggio 1524. Lei che, contagiata dalla peste, morì «sola sul letto della croce», fu sepolta tra la calce viva per evitare un ulteriore contagio e il suo commiato venne fatto all’aperto per il divieto di assembramenti, certamente sa cosa sta attraversando chi ha contratto il virus e lo affronta nella solitudine di un ospedale. Conosce il dolore dei familiari e quello di noi tutti. Per questo siamo certe che intercede pace e salute per ciascuno, lei che promise «Dal Cielo, non mi dimenticherò mai di voi». Quando alla fine del Trecento a Camerino vennero ristrutturate le mura cittadine, il duca Giovanni Spaccaferro volle che a ogni porta d’ingresso, oltre a un presidio armato a protezione dai nemici fisici, venisse posta anche una comunità religiosa a custodia dai nemici spirituali o invisibili, proprio come la peste, quasi a creare una sorta di cintura spirituale. Raccogliendo questa tradizione, oggi la nostra preghiera affidandosi all’intercessione di Camilla Battista si innalza con fiducia e perseveranza, a custodia dell’uomo del nostro tempo dalla città di Camerino che oltre all’emergenza terremoto che ancora non ci abbandona, vive in prima linea anche l’emergenza covid-19, in quanto punto ospedaliero di accoglienza per tutti i contagiati del nostro territorio.
Nella mentalità mainstream, segnata da un razionalismo che lascia poco spazio all’invisibile, la preghiera, il più delle volte, non viene percepita come un aiuto concreto; perché è così importante invece in tempo di crisi?
La preghiera per sua stessa natura appartiene all’ambito del desiderio e come ogni desiderio ha per oggetto qualcosa che ci manca. Per questo nasce da una condizione di privazione, di povertà, di fragilità, di limite.
La radice della parola preghiera è la stessa della parola “precario” che in latino significa “sospeso”, “incerto”, dipendente dalla volontà altrui. Preghiamo, infatti, perché avvertiamo la precarietà della nostra condizione; perché ci sentiamo vacillanti, sospesi nel vuoto, nel buio; perché la vita ci viene meno e insieme ci stringe alla gola; perché abbiamo paura e ci sentiamo smarriti, perché tutto attorno a noi ci sembra insensato. La molla quindi è questo profondo desiderio di vita, di luce e di senso. Ma non una luce qualsiasi, una vita qualsiasi, un senso qualsiasi: tutte cose che abbiamo già, ma che non ci bastano. Noi cerchiamo e desideriamo Qualcosa o Qualcuno che non sia precario, come noi e come tutto nella realtà che ci circonda. Qualcosa o Qualcuno che ci liberi dalla nostra precarietà e dall’insensatezza della vita, dal limite che tanto ci angoscia. Partendo, allora, dalla complessità, dalla contraddittorietà della situazione che stiamo attraversando, e abbracciandone la drammaticità, è nella preghiera che possiamo scoprire la presenza del Signore che, come Buon Pastore ci accompagna, mentre camminiamo nella valle oscura. Per questo la preghiera è fonte di speranza certa, perché si fonda sulla fiducia che l’ultima parola su quanto viviamo è la bontà di Dio Padre, che è fedele e stabile come la roccia. Solo questo può dare sostanza e rendere efficace qualcosa che per sua natura, abbiamo detto, porta in sé una nota di precarietà. Si tratta forse di imparare a chiedere, anziché qualche grazia, la Grazia, per affrontare l’ora della prova con la speranza nel cuore. Preghiamo quindi non perché il Signore smetta di “castigarci con questo flagello”, come se il coronavirus fosse una punizione di Dio che usa il dolore e il terrore per vendicarsi della nostra infedeltà e piegarci alla sua volontà. Piuttosto invochiamo il Signore perché illumini gli scienziati affinché scoprano presto l’antidoto e i governanti perché compiano scelte buone e giuste; doni forza agli operatori sanitari, sostenga i malati, consoli chi piange i propri morti, apra il cuore di tutti a condividere il dolore e a non rinchiudersi in sé stessi.
“Sentinelle” a guardia della città, come voleva il duca Spaccaferro…
I contemplativi una volta erano simboleggiati dai gufi che, con i loro occhi grandi, sono capaci di vedere anche nella notte. Un cuore orante è quello di chi, custodendo dentro di sé il dolore che lo circonda, sa mantenere uno sguardo penetrante per scorgere la presenza discreta ma efficace della tenerezza del Signore anche nelle situazioni più difficili. Qualche tempo fa il Papa, parlando della preghiera, propose l’esempio di Mosè che in un serrato “faccia a faccia” con Dio intercede per ottenere il perdono del suo popolo che si era costruito un vitello d’oro. Quello che emerge è l’audacia paziente e coraggiosa di Mosè. Dalle sue parole traspare il coinvolgimento e l’amore per il popolo. «E quando Dio vede una persona» ha detto il papa «che prega e prega e prega per qualcosa, o per qualcuno, Lui si commuove. Questa, spiega «è la preghiera di intercessione: la preghiera di un cuore coraggioso che condivide e che si lascia commuovere, di un cuore paziente che non si stanca di bussare. Se io voglio che il Signore ascolti qualcosa che gli chiedo, devo andare, e andare, e andare, e bussare alla porta del suo cuore. E posso fare questo solo se il mio cuore è coinvolto! Ma se il mio cuore non si coinvolge con quel bisogno, con quella persona per la quale devo pregare, non sarà capace neppure del coraggio e della pazienza». Un cuore orante allora è quello di chi si fa carico delle necessità dei fratelli, deponendole nella preghiera ai piedi del Signore, e lì attinge quella Parola di speranza e conforto da donare poi a quanti bussano, mendicanti di consolazione, tramite telefonate, email o messaggi.
Che cosa significa per voi non poter partecipare alla celebrazione eucaristica?
Nei primi giorni, quando le ordinanze erano meno restrittive, abbiamo potuto celebrare l’eucaristia, prima con pochi fedeli e poi a porte chiuse. Ma quando la situazione è esplosa anche noi abbiamo dovuto sospendere le celebrazioni perché in comunità abbiamo una sorella giovane immunodepressa e con gravi problemi respiratori, perciò ad alto rischio in caso di contagio. Quindi il digiuno eucaristico vale anche per noi. Di fatto questo contagio ci sta, volenti o nolenti, esiliando dalla terra della nostra vita. Questo ci fa pensare all’esperienza biblica dell’esilio. La stessa cosa vale per noi oggi: nell’esilio derivato da questa pandemia il Signore ci indica nel silenzio e nell’ascolto della sua Parola, nella pazienza e nella perseveranza, nella preghiera e nella carità vicendevole, le armi per affrontare questa nuova battaglia della vita e della fede. Il non poter partecipare all’Eucaristia è uno stimolo a far sì che tutta la nostra vita assuma uno stile eucaristico nella riscoperta della bellezza della comunione dei santi, ossia dell’amicizia cristiana che non è rotta neppure dalla distanza fisica, spaziale o temporale. Per noi tutto questo ha significato concretamente un impegno ancora più ardente e assiduo nel vivere quello che è il nostro specifico nella Chiesa, essere “ministri del grido” nell’umile mendicanza della salvezza, seguendo l’esempio di Chiara nell’essere orante sostegno delle membra deboli e vacillanti del suo corpo, con la continua preghiera di intercessione che diviene grido: «Salva il tuo popolo Signore, guida e proteggi i tuoi figli!». Vorrei però aggiungere che ognuno di noi sa che ogni giorno i sacerdoti stanno celebrando l’Eucaristia per noi, anche se non con noi fisicamente. Ogni Eucaristia è un’Eucaristia celebrata sul mondo, in cui il mondo stesso diviene patena dei fermenti dell’umanità, calice d’ogni pena e d’ogni povertà, nell’offerta del pane fragrante dei giorni e del vino ardente del tempo. Inoltre, nell’Antico Testamento, il Sommo Sacerdote, quando offriva il sacrificio, portava un particolare abito che aveva sulle spalle due pietre di onice, incastonate nell’oro, con sopra incisi, come sigillo per il ricordo, i nomi degli israeliti. Queste, con delle catene, erano legate a un pettorale dorato ricoperto di dodici pietre preziose, che corrispondevano anch’esse alle dodici tribù d’Israele. Ci piace pensare che anche i nostri sacerdoti, quando si recano dinanzi all’altare, come il sommo sacerdote dell’Antico Testamento lo fanno portandosulle proprie spalle tutto il popolo di Dio, così come fa il Buon Pastore che porta su di sé la pecorella perduta. E sappiamo che possono farlo nella misura in cui custodiscono nel loro cuore, come pettorale dorato e prezioso, i volti dei fedeli conosciuti e di tutti gli uomini. Questo ci ricorda che la preghiera anche quando è personale o fatta da soli, non è mai privata, perché il cristiano sa che quando prega lo fa sempre come membro di quel Corpo che è la Chiesa.
Come vivere questo tempo di clausura esteso a tutti? Qualche consiglio per chi non è abituato al silenzio e all’isolamento; e alla fatica di una convivenza “stretta” con i familiari.
In questo momento in cui siamo tutti costretti a una vita in qualche modo monastica, la preghiera, la riscoperta dell’interiorità e delle relazioni più strette diventano una sfida e un’opportunità per reimparare a rimanere con se stessi e con gli altri. Noi tutti siamo immersi in una cultura fatta di spazi dilatati e tempi ristretti: immagini, notizie, sono visti e letti in tempo reale in ogni parte del globo; incontri, impegni ed eventi si susseguono a un ritmo incredibile, in una corsa continua. La frenesia del mondo digitale schiacciato sul dinamismo dell’istantaneità immediata ci ha fatto dimenticare che la misura dell’umano è un’altra: l’uomo e il mondo biologico hanno ritmi diversi, più lenti, più lunghi, che chiedono di essere rispettati. È come se l’uomo fosse salito su un treno ad alta velocità da cui non è più in grado di scendere. L’uomo contemporaneo, infatti, non sa più fermarsi. Si ferma solo se è fermato. Fermarsi liberamente è diventato quasi impossibile. Solo i contrattempi spiacevoli riescono a fermarci nella nostra corsa affannosa per approfittare sempre più della vita, del tempo e spesso anche delle persone. Oggi, a causa di un virus invisibile il mondo si è fermato, come per una Quaresima universale. La situazione drammatica che stiamo affrontando ha, così, il sapore di un freno d’emergenza tirato all’improvviso, che ci costringe a una presa di coscienza della nostra precarietà e fragilità e a una necessaria inversione di marcia e di polarità. La nostra vita di sorelle povere, accogliendo l’invito del salmista «Fermatevi e sappiate che io sono Dio» sta tutta nel rimanere ai piedi del Signore. Ed essendo caratterizzata da spazi ristretti e tempi dilatati si colloca all’opposto di questo incalzare frenetico. Proprio per questo crediamo che possa offrire uno spunto di riflessione nell’affrontare le sfide che questa situazione oggi ci pone. Infatti, il rischio di un’esistenza che si muove tra le coordinate di uno spazio infinitamente dilatato e di un tempo concentrato è quello di vivere lo spazio nell’esclusiva dimensione orizzontale, ristagnando così in un’ansiosa superficie o superficialità, ed eludendo la dimensione verticale, cioè quella della profondità, dell’interiorità e della spiritualità. Per l’uomo frenetico e in fuga da se stesso abitare e accogliere la straordinarietà del fermarsi offre la possibilità di riscoprire la segreta bellezza del vivere, come per Francesco e Chiara, in “altissima povertà e santa unità”. Certo tutto questo non è facile e non si improvvisa: chiede un’educazione alla continua ricerca di un equilibrio interiore ed esteriore e alla capacità di riconoscere nelle relazioni gomito a gomito una risorsa feconda. È la fatica che ognuna di noi ha imparato e scelto di apprendere appena entrata in monastero! Ma è davvero solo fermandoci, come chi si ferma davanti a un tramonto o a un’opera d’arte, che potremo riscoprire, con stupore, la bellezza di quanto è in noi e intorno a noi, delle persone che ci circondano, che amiamo e che ci amano e che spesso diamo per scontate. Questa pandemia, pur nella sua drammaticità che non può essere sminuita in nessun modo, può diventare per noi tutti un’occasione per scoprire una “bellezza collaterale”, per fermarci davvero, non solo perché costretti, ma perché invitati dal Signore a rientrare in noi stessi, a stare davanti a Lui, e a riconoscere che Lui, proprio ora, ci viene incontro in mezzo alla tempesta delle nostre angosce e paure, dicendoci «Coraggio, sono io, non abbiate paura!» affinché accada che anche noi possiamo camminare con Lui e insieme ai fratelli sulle acque burrascose della vita.
Silvia Guidi
Da L’Osservatore Romano, mercoledì 2 aprile 2020, p. 5.
Visita il sito delle Sorelle Povere di S. Chiara di Camerino www.clarissecamerino.it